L’organizzazione non governativa ‘Reporters sans frontières’ (Rsf), che si occupa di libertà di stampa e che mette nero su bianco i nomi dei giornalisti che si sono contraddistinti nel mondo per aver svolto il loro lavoro in contesti pericolosi affermando, anche a rischio della propria incolumità, il principio della libertà di stampa, ha momentaneamente sospeso dalla lista dei 100 giornalisti “coraggiosi” Pino Maniaci, editore e frontman di TeleJato.
Il volto di Maniaci, che da maggio è sotto inchiesta per estorsione perché avrebbe chiesto e ottenuto favori anche da due sindaci in cambio di una linea morbida nei suoi servizi televisivi, “non c’è più – scrive oggi ‘Il Foglio’ -, al suo posto c’è uno spazio vuoto, la sua scheda è stata eliminata”.
Il tutto senza una spiegazione, che è stata invece chiesta dal quotidiano al chief editor di Rsf: “Fino a quando l’indagine non sarà finita, abbiamo scelto di ritirarlo dalla nostra lista di ‘Eroi dell’informazione'”, sono state le parole di Gilles Wullus. Una scelta criticata dal quotidiano, che parla di “damnatio memoriae” scelta dalla ong “al posto di un giudizio pubblico e trasparente” nei confronti di Maniaci che è indagato e non ancora sotto processo.
L’80% delle donne nigeriane arrivate in Europa dall’inizio del 2016 diventeranno delle vittime di tratta. A denunciarlo e’ l’Onu.
Il traffico di donne nigeriane dalla Libia verso l’Italia in barca sta raggiungendo livelli di veramente preoccupanti. I trafficanti utilizzando centri di accoglienza dei migranti come recinti per le donne che poi vengono prese e costrette a prostituirsi in tutta Europa. Anche l’Oim, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, lancia l’allarme.
Infatti sarebbero circa 3.600 le donne nigeriane arrivate in Italia su un gommone nei primi sei mesi del 2016: stando ai dati dell’organizzazione il doppio rispetti ai numeri registrati nel 2015 negli stessi mesi. ?
Quello che abbiamo visto quest’anno e’ una crisi, ed e’ assolutamente senza precedenti. E’ il piu’ significativo aumento del numero di donne nigeriane che arrivano in Italia per 10 anni?, ha dichiarato Simona Moscarelli dell’Oim in un’intervista al The Guardian.
?I nostri indicatori?, ha continuato, ?ci fanno affermare che la maggior parte di queste donne vengono deliberatamente portate a diventare delle prostitute. Sono soprattutto ragazze giovani e nigeriane?. L’attuale politica che vede collocare negli stessi centri di accoglienza le donne nigeriane e gli altri migranti, sta giocando a favore dei trafficanti. ?
C’e’ poca comprensione delle dinamiche e la natura di questa forma di traffico?, ha continuato Moscarelli. ?I centri di accoglienza non sono posti sicuri per le donne vittime di tratta. Queste donne troppo spesso vengono abusate e sfruttate gia’ durante il loro viaggio verso l’Italia. Qualcuna e’ costretta a prostituirsi gia’ in Libia?.
Quelle che arrivano vive dopo il viaggio sono sempre piu’ giovani. Nella maggior parte dei casi sono minori non accompagnate.
Salvatore Vella, procuratore aggiunto ad Agrigento, che ha guidato la prima significativa indagine di anelli di tratta nigeriane in Italia nel 2014, ha spiegato come i centri di accoglienza sono sempre piu’ utilizzati come punti di pick-up da parte di coloro che intendono sfruttare le donne nigeriane. ?I mafiosi appena le donne arrivano arrivato al campo scelgono le donne che vogliono quasi come se si trovassero in un negozio di alimentari.
I centri di accoglienza diventano quasi dei magazzini dove le ragazze sono per un lasso di tempo stoccate. Dopo che le donne hanno ottenuto il permesso di soggiorno e lo status di rifugiate a loro basta andare a prenderle?.
“Prese Totò Riina, ora alleva rapaci e ha una casa famiglia per minorenni in difficoltà alla periferia di RomaPrese Totò Riina, ora alleva rapaci e ha una casa famiglia per minorenni in difficoltà alla periferia di Roma”. di Giusy Fasano del Corriere della Sera.
«Le mie aquile? Sono qui grazie ai miei amici Apache». Come gli Apache? «Gli Apache delle bianche montagne. Sono sempre stati un riferimento per me, in certi momenti duri ho pensato molto alle loro tecniche di combattimento. Al loro modo di apparire e svanire, di essere pochi e sembrare tanti. Poi un giorno ho visto un indirizzo su una rivista e ho scritto al loro capo, Ronnie Lupe…». Ultimo — il capitano Ultimo, quello della squadra Crimor e della cattura di Totò Riina — spedì una lettera al capo della tribù. Per parlargli del dolore, dei giorni consumati a caccia di assassini e latitanti, della tristezza che provò quando vide saltare in aria un’autostrada, «e insieme a quell’autostrada andò via un pezzo grande di speranza e di libertà». Eppure — chiudeva quella lettera — «nessuna tragedia sarà mai paragonabile al genocidio della nazione Apache». Incredibilmente Ronnie Lupe rispose e ancora oggi ripensandoci si emoziona, Sergio De Caprio, classe 1961, nome in codice Ultimo, scelto «perché ho visto troppa gente che sgomitava per arrivare al primo posto».
L’incontro con il capo Apache
Ma torniamo al capo Apache. «Dopo la sua risposta io e miei uomini lo incontrammo. È stato con noi due giorni senza dire una parola, ci scrutava in silenzio. Alla fine del secondo giorno ci ha detto: vi ho osservati. Siete come questa mano: se la vedi aperta sono cinque dita, se la vedi chiusa è la forza di un pugno. Ci ha raccontato delle sofferenze della sua gente e ci ha parlato della famiglia delle aquile alla quale lui chiede sempre un parere prima di prendere una decisione». È stato quel giorno che l’idea di avere un’aquila ha cominciato a cercare spazio nei pensieri di Ultimo (nel frattempo diventato colonnello e oggi operativo al Noe). «Tanti anni dopo quell’incontro mi è capitato di vivere un periodo davvero nero — racconta lui —. Stavo male, sono finito in ospedale ma nessuno capiva cosa avessi». Era il tempo delle accuse per la non perquisizione al covo di Riina, Ultimo fu travolto dal processo (poi è stato assolto), «ma per favore avevamo detto solo le aquile, non voglio parlare di mafia né di quello che ho sentito in aula, né voglio gloriarmi della cattura di Riina… Io nel frattempo sono andato avanti, non mi sono mai fermato».
Il rapporto con gli animali
Riprendiamo. «Ero in ospedale e una notte ho fatto un sogno: mi venivano addosso moltissimi falchi ma invece di beccarmi mi sfioravano, quasi delle carezze. Per me quello era un messaggio di Ronnie: mi suggeriva di curarmi con i falchi. Quando sono uscito sono andato dai falconieri, ho fatto un corso e ne ho preso uno. Non sono mai più stato male. E appena ho potuto sono passato dal falco alle aquile. È così che sono guarito». Oggi il capitano Ultimo ha due aquile reali — un maschio di nome Wahir e una femmina che si chiama Lacrima, nate in cattività —, una falconeria e rapaci di vario genere nella casa famiglia che ha tirato su assieme ad amici, volontari e uomini della sua vecchia squadra. Si occupano di minorenni in difficoltà alla periferia est di Roma, nella Tenuta della Mistica.
Tra Lacrima e Wahir
«Qui creiamo sopravvivenza» racconta lui mentre infila il guanto di cuoio per tenere sul braccio le sue aquile. «Per me è una preghiera fare giustizia senza chiedere niente in cambio, è una preghiera fare il prete-carabiniere cercando di creare tutta l’eguaglianza e la bellezza possibile nella sopravvivenza di chi viene alla nostra porta e la trova aperta». Si infila nel capanno a prendere Lacrima. Due metri e più di apertura alare, «la potenza, la bellezza e la perfezione messe assieme» la presenta lui. «Quando vola volo con lei, la vedo planare e plano con lei, quando arriva sento addosso il soffio del vento. Se un giorno volesse andare è libera di farlo, finora è sempre tornata». Le aquile hanno un partner per la vita e sia per lei sia per Wahir il partner è Ultimo. In primavera, quando arriva, loro fanno versi d’amore per lui e lui ricambia con parole, carezze e ramoscelli per costruire il nido. Un giorno ha raccolto una penna. L’ha impacchettata e l’ha spedita al suo amico Apache.
Siamo ormai a fine Agosto e l’estate che sta per concludersi é stata sicuramente molto florida per Agrigento.
A causa delle numerose disgrazie avvenute oltremare, onde di turisti si sono riversati sulle nostre coste, di inestimabile bellezza, interessati alla nostra cultura, all’ arte ed alla splendida cucina.
Ma nonostante il ben volere per l’arrivo dei turisti in città, la loro accoglienza non è stata adeguatamente gestita.
Chi si sarebbe dovuto occupare dell’organizzazione, si è trovato completamente impreparato.
Gli Enti preposti, ignari di quello che poteva accadere durante la stagione estiva, come se nell’era dell’informatica sia impossibile prevedere con largo anticipo le presenze turistiche che arrivano in una località, si sono occupati di gestire il consueto, come se nulla stesse accadendo.
Il tutto è stato demandato ai gestori delle piccole attività alberghiere, B&B e ristoratori, che si sono prodigati per dare il massimo dell’accoglienza ai loro ospiti, alle prese con gli atavici problemi della spazzatura e dell’acqua che è opportuno far conoscere, perché tutta la Città è stata penalizzata con turni allungati a favore della località balneare di San Leone.
E che dire dei notevoli disagi che si sono registrati presso la strada provinciale 4 che da l’ accesso al tempio di Giunone. Nessuno si è occupato di gestire l’enorme traffico veicolare creando serie difficoltà alla circolazione e pericolosità per gli stessi pedoni e automobilisti.
La strada, infatti, non è fornita di illuminazione pubblica né di segnaletica stradale, non sono sufficienti i posti auto e le macchine vengono parcheggiate in luoghi occasionali lungo la panoramica, sui marciapiedi e nella curva priva di visibilità, nonostante l’esplicito divieto di sosta. Nelle ore diurne i visitatori del sito in attesa di pagare i biglietti, creavano file interminabili che si allungavano sin sulla carreggiata, creando serio pericolo per la loro stessa incolumità e per quella degli automobilisti in transito. C’è da sottolineare che a proposito, numerose sono state le segnalazioni agli organi di polizia ma restie e ben poco ascoltate.
L’auspicio, si spera, e che consapevoli che certamente continueremo a beneficare di queste provvidenze “accidentali”, prima della prossima stagione estiva, gli organi competenti in materia, acquisiscano quantomeno le basi per un’adeguata competenza nella struttura organizzativa dei servizi attraverso competenze e funzioni amministrative ben definite, un sistema operativo adeguato per svolgere al meglio le funzioni necessarie alla vita organizzativa, la creazione di un sistema progettuale di accoglienza professionale dell’ospite tramite la cooperazione, collaborazione e costruzione di una cultura comune del “turista“.
Qualche tempo fa il ferragosto di San Leone, lido di Agrigento, era annoverato tra i più belli del nostro Paese.
Ricordo, negli anni, i servizi televisivi dei tg nazionali parlare dell’imponente flusso di turisti che si riversava sul litorale agrigentino per prendere parte a quella festa religiosa, trasformata in consuetudine di allegria, a cui gli agrigentini nei decenni hanno sempre partecipato.
Un’occasione per riavviare una parte della città, richiamare anche curiosi e turisti a godere di una serata in compagnia per fruire, sotto il cielo stellato, di un bagno notturno allo scoccare della mezzanotte: con la magia della luce luce calda del fuoco che con i suoi falò asciugava la pelle dei natanti ed illuminava la sabbia dorata delle dune.
Il Ferragosto ad Agrigento è sempre stata una tradizione bella ed autentica, figlia dell’estate e dell’amicizia tra i gruppi che in spiaggia godevano di birre ghiacciate, meloni rosse e strimpellate di chitarra. Un appuntamento atteso che aiutava anche i commercianti della zona con i bar, i panifici e market che alla vigilia facevano registrare incassi ben oltre la media quotidiana che, per un’economia povera e limitata come quella agrigentina, è certamente cosa positiva.
Quest’anno la notte di ferragosto è sembrata una cerimonia funebre, un’osservanza al coprifuoco durante una guerra, un divieto alla caratterizzazione del luogo. E’ stata, alla fine, una serata spezzata dai divieti di chi forse ha paura di amministrare prendendosi delle responsabilità sicuramente importanti, ma se il costo da pagare deve essere la sottrazione a qualcosa di bello che appartiene alla memoria storica di una città che di suo offre già ben poco, non va bene.
Migliaia di persone si sono riversate in provincia dove i falò sono stati invece intelligentemente gestiti dai comuni pur attuando delle disposizioni di legge e preservando spiagge dagli incivili. Sicuramente, dopo i tavoli tecnici con Capitaneria e Prefettura, i falò potevano istituirsi: debitamente autorizzati ed approntati da operai comunali e magari con l’aiuto di qualche imprenditore. La polizia municipale invece di dare la caccia a macchine da multare, in un viale delle dune deserto, si sarebbe potuta impegnare in altro modo e per la buona riuscita del vero ferragosto .
L’ultimo ferragosto non appartiene a nessuno se non a chi lo ha pensato così, non è riconosciuto, sottrae Agrigento ed i suoi cittadini da un pezzo di storia. Fra i delusi non vanno dimenticati anche quelli che nel ferragosto vedono la preservazione di un messaggio religioso: il fuoco dei falò significa luce e l’acqua con il bagno a mezzanotte è sinonimo di purificazione. Ad ogni modo è stato triste guardare dopo le 24:00 i dj suonare nei chioschi vuoti, pieni invece erano quelli di tutta la provincia di Agrigento. Saper amministrare farà pure rima con vietare, ma non si possono e non si devono sterminare le cose buone e belle per una città.
In tantissimi sono rimasti attoniti nel vedere quella San Leone di metà agosto così silenziosa, così piatta e morente. I Ferragosto, con buona pace di quegli ambientalisti che non vanno mai oltre il proprio punto di vista, si possono continuare a festeggiare se una amministrazione sa come gestirlo ovviamente sotto il segno delle regole. Questo è stato sicuramente un ferragosto da non ripetere, basta chiedere a qualsiasi agrigentino che vi risponderà: “Questo ferragosto si ricorderà … “ Si ricorderà come il più brutto ed inesistente ferragosto di sempre.”
Da New York all’Australia, le inchieste delle polizie di mezzo mondo ci dicono che i clan calabresi hanno sconfitto Cosa Nostra nella lotta per il controllo delle rotte mondiali del narcotraffico. Ecco come i nuovi padroni del crimine hanno messo fuori gioco i vecchi padrini.
Ndrangheta in USA
Lo rivela un’inchiesta di “Repubblica” che merita di essere letta anche per le referenze che evidenzia rispetto al nostro territorio, la mafia siciliana e quella agrigentina di Giuliano Foschini, Marco Mensurati e Fabio Tonacci.
Lorenzo “Skunk” Giordano
Laval, sobborgo di Montreal, Canada. Primo Marzo. Lorenzo Giordano ferma il Suv “Kia” blu sull’asfalto innevato del parcheggio del “Carrefour Multisport”, vicino all’Highway 440. Spegne il motore, il crocifisso legato allo specchietto retrovisore sta dondolando. Sono le 8.45, la mattina è gelida. Un killer sbuca a lato della macchina e gli spara alla testa e alla gola, frantumando il vetro del finestrino. Lorenzo “Skunk” Giordano, 52 anni, muore poco dopo in ospedale.
Joseph “Pino” Acquaro.
Carlton, quartiere italiano di Melbourne, Australia. 15 Marzo. Un signore abbronzato con i capelli ben pettinati esce dal “Gelobar”, la sua gelateria. Sta camminando, è da poco passata la mezzanotte. E’ solo, e la strada è buia. Lo freddano alle spalle sparandogli da un’auto in corsa, senza neanche fermarsi. Tre ore dopo un netturbino scende dal camioncino e si avvicina al cassonetto. Accanto c’è il cadavere di Joseph “Pino” Acquaro, 50 anni, famoso avvocato.
Ancora Laval, 27 maggio. Alla fermata dell’autobus su bouèlevard “St. Elzear” è seduto un uomo, sui trent’anni, vestito completamente di nero. Scarpe nere, pantaloni neri, giacca nera, occhiali neri. Sono le 8.30. La Bmw di Rocco Sollecito, come previsto, passa sul bouèlevard . Il semaforo è rosso, si ferma. L’uomo nero si alza, e punta la pistola contro il finestrino della macchina. Rocco “Sauce” Sollecito, 62 anni, scivola sul sedile imbrattato del suo sangue, colpito a morte.
Rocco Sollecito, uno dei boss del clan Rizzuto
Canada, Australia, Stati Uniti. Reggio Calabria. Il terremoto di sangue ha un epicentro silente: New York. E nuovi clan emergenti che hanno preso troppo potere, come gli Ursino, ndranghetisti di Gioiosa Jonica. L’onda d’urto si è propagata su tutto il pianeta. Le vite affogate nel piombo di “Skunk”, “Pino” e “Sauce” sono scosse di assestamento. La chiamano la “guerra mondiale della mafia”.
LA SESTA FAMIGLIA. New York, quindi. Niente è come prima. Le cinque grandi famiglie di Cosa Nostra (Gambino,Bonanno,Lucchese,Genovese,Colombo) non sono più quelle di prima. Lo documentano le ultime inchieste dell’Fbi, condotte insieme agli investigatori del Servizio Operativo Centrale (SCO) della Polizia Italiana. Due settimane fa l’Fbi ne ha catturati 46 tra la Florida, il Massachusetts, New Jersey, New York e il Connecticut: capi, mezzi capi e paranza dei Gambino, dei Genovese, dei Bonanno. E’ finito dentro anche il 23enne John Gotti jr., nipote dell’ultimo grande boss di Cosa Nostra americana. Assediati dalle indagini e indebolite da un ricambio generazionale difficoltoso, i siciliani stanno cedendo spazio, in maniera apparentemente quasi del tutto incruenta, alla mafia calabrese. Nella Grande Mela i clan mafioso dei Commisso e degli Aquino-Coluccio si sono insediati da anni, ma chi sta rivendicando un ruolo come “Sesta Famiglia” sono gli Ursino di Gioiosa Jonica. E questo è un problema per tutti. Una Sesta Famiglia c’è già. Pur non ammessa nel gotha criminale di New York, la famiglia Rizzuto di Montreal, in Canada, hanno storicamente un legame stretto con i Boxano. Se c’è da mettere in piedi un affare di certo peso – partite di cocaina, armi, riciclaggio – i referenti sono loro. Un rapporto che da un po’ di tempo non è più così solido. Tra il 2012 ed il 2013 una fonte confidenziale dell’Fbi rivela che Francesco Ursino, il boss dell’omonima cosca storica alleata dei Cataldo di Locri, ha chiesto ai Gambino di poter lavorare sulla piazza di New York “proprio come una sesta famiglia”. Chiesto, per modo di dire. A questo giro sono i siciliani di Cosa Nostra a trovarsi di fronte un’offerta che non si può rifiutare, perché quando ha bussato alla porta dei Gambino Francesco Ursino in realtà si era già preso tutto: le rotte del narcotraffico, i contatti con i cartelli sudamericani, il controllo dei porti e dei cargo. Il boss parlava a nome non di una famiglia sola, ma di quello che gli investigatori nell’indagine “New Bridge” definiscono un “consorzio” di clan della Locride. Rifiutare avrebbe voluto dire per i Gambino ingaggiare una guerra senza senso e dall’esito alquanto incerto. Meglio mettersi d’accordo e accettare di fatto.
Francesco Ursino
I BROKER E I CARTELLI SUDAMERICANI. Da anni i calabresi lavorano nell’ombra a New York, negli scantinati delle loro pizzerie e nei retrobottega dei loro “Italian Restaurant”. Volano a Bogotà e San Josè nel weekend, fingendosi turisti. “Se volete sapere cosa succede a New York, cercate in Centro America; se volete sapere cosa succede tra i Cartelli del Golfo guardate chi comanda a New York.” spiega Anna Sergi, criminologa dell’università “Essex”, studiosa delle proiezioni della ‘ndrangheta all’estero. E in Centro-Sud America succede che i calabresi comandano. Marcano il territorio. Agganciano intermediari. Sparano il meno possibile. Più finanza meno casini. La gola profonda che ha spiegato alla DEA e all’FBI cosa si stava muovendo nel ventre criminale della Grande Mela si chiama Christopher Castellano. E’ proprietario di una discoteca nel Queens, il “Kristal’s”, che usa per nascondere quello che in realtà è: un broker dei “Los Zetas”, il pericolosissimo cartello messicano paramilitare dei disertori dell’esercito che si avvale di lui per commerciare stupefacenti negli States e in Europa. Con i narcotrafficanti, Christopher ha fatto una montagna di soldi. La festa dura poco,però. Lo arrestano nel 2008, e lui, pur di uscire di galera, canta tutto. Si vende ai poliziotti due calabresi: Giulio Schirripa e tale “Greg”. Racconta di questi due italiani che, usando pizzerie come copertura e i soldi della ‘ndrangheta come garanzia, stanno muovendo tonnellate di cocaina nascosta nei barattoli di frutta trasportati dalle navi. “Hanno un pipeline attraverso gli oceani”, sostiene Castellano. Se girano grosse partite di cocaina tra Costarica, Usa, Canada ed Europa è roba loro. Distribuiscono, smistano, gestiscono, aprono società fittizie di import-export, corrompono doganieri. A New York vanno a cena con i Genovese.A San Josè si incontrano con gli uomini di Arnoldo de Jesus Guzman Rojas, il capo del cartello di Alajuela. A Reggio Calabria riferiscono al clan Alvaro. Sono dei “facilitatori”, insospettabili perché incensurati: creano le condizioni per portare la polvere bianca dai laboratori nella giungla del Costarica al naso dei consumatori. Schirripa, arrestato insieme a Castellano, è l’archetipo dell’emigrato calabrese alla conquista di New York. Gregorio “Greg” Gigliotti, l’epigono. Chris Castellano è divenuto carne morta nel momento stesso in cui ha aperto bocca con gli agenti federali. 4 Luglio 2010, negli Stati Uniti si festeggia il giorno dell’Indipendenza. Ad Howard Beach, nel Queens, lo spettacolo dei fuochi d’artificio è iniziato poco prima di mezzanotte. Castellano però non ha gli occhi al cielo, sta frugandosi nelle tasche per cercare le chiavi della macchina. Un colpo solo alla nuca. Nessuno si accorge di niente. Castellano non potrà mai più parlare con l’Fbi.
Rocco Schirripa
L’UOMO CHE MANGIAVA IL CUORE. Intanto, però, gli investigatori hanno messo sotto controllo i cellulari e riempito di cimici i ristoranti di Gigliotti, nel Queens, tra cui il famoso “Cucino a modo mio”, citato nelle varie riviste specializzate. “Non c’è un grammo di cocaina in Europa che non sia passata tra le mani di Gregorio”, ripetono spesso i complici dell’italiano, terrorizzati dalle escandescenze di Gigliotti. Quando si arrabbia, col suo dialetto calabrese impastato da uno slang americano, può dire cose terribili: “Una volta mi sono mangiato un pezzo di rene e un pezzo di cuore”m sbraita con la moglie, irritato da un altro calabrese che sta provando a inserirsi nel suo business. Il centro dei suoi affari è il Costarica, dove ha contatti con i narcotrafficanti. “E digli che non facciano troppo i furbi” ripete loro quando li spedisce in Sudamerica. Lui accumula denaro, i poliziotti dello Sco e dell’Fbi, ascoltano e anticipano qualsiasi mossa. Porto di Anversa, 16kg di cocaina sequestrati. Porto di Valencia, 40kg di cocaina sequestrati. Wilmington, 44kg. Porto di Rotterdam, 3 tonnellate. Poi l’8 maggio scorso lo arrestano. Finisce dentro anche suo figlio Angelo. Ma poche settimane dopo torna in libertà grazie ad una cauzione di 5 milioni di dollari. Pagata ovviamente in contanti.
Cucino a modo mio, ristorante di GigliottiIl funerale di Vito Rizzuto
LA MATTANZA CANADESE. Fuori gioco i referenti degli Alvaro, New York se la sono presa gli Ursino. Compresi i contatti con i sudamericani. Le scosse di terremoto si riverberano in Canada, dove le gerarchie si sgretolano. E con esse la pax mafiosa. Dagli anni 80 i criminali italiani emigrati lì si erano divisi gli affari, tra Toronto e Montreal. Ai siciliani del clan Rizzuto la droga; ai calabresi arrivati da Siderno, il gambling, il gioco d’azzardo e l’usura. La mappa l’hanno disegnata nel 2010 gli investigatori italiani che hanno lavorato alla maxi inchiesta “Crimine”, che per la prima volta individuò i vertici della ‘ndrangheta ed è ancora valida. Tre anni fa, il capo dei Rizzuto, Vito, muore di tumore. Nei mesi successivi, in coincidenza con l’ascesa degli Ursino nel quadrante nordamericano, quattro dei sei membri del “Consiglio” del clan Rizzuto vengono uccisi. L’ultimo a cadere è stato Rocco Sollecito. Poche settimane fa, a Montreal, stava per finire in una bara Marco Pizzi, 46 anni, importatore di cocaina per i Rizzuto, sfuggito all’agguato dei sicari che lo avevano tamponato e affiancato con una macchina. Erano mascherati ed armati. “I calabresi hanno attaccato i vecchi poteri”.
Greg Gigliotti e sua moglie
E’ ‘ndrangheta contro Cosa Nostra. La Guerra Mondiale, quindi.
Pasquale “Pat” Barbaro
LA FAIDA AUSTRALIANA. La scia di sangue si allunga fino all’Australia, dove il golpe calabrese sulle rotte della cocaina ha destabilizzato equilibri che si reggevano dalla fine degli anni 70. La famiglia Barbaro sembra aver perso il passo, e i contatti con i nuovi importatori sarebbero passati nelle mani di Tony e FrankMadafferi. A Melbourne i calabresi combattono contro i calabresi. Frank Madafferi e Pasquale “Pat” Barbaro furono indagati nel 2008 nel processo per il più grande carico di metanfetamine mai intercettato nella storia del narcotraffico: 4,4 tonnellate di ecstasy per un valore di 500 milioni di dollari australiani, circa 340 milioni di euro in pasticche stivate in una nave che trasportava lattine di pomodoro. Ma quel processo non è l’unica cosa che accomuna Frank e Pat.
Frank Madafferi
A unirli, come spesso accade, anche la scelta dell’avvocato: il professionista italo-americano Joseph Aquaro. L’uomo trovato morto dal netturbino davanti alla sua gelateria, lo scorso marzo. Le indagini sono ferme al palo anche se un paio di elementi hanno attirato l’attenzione su Madalferi: in particolare alcune intercettazioni in cui si dichiara proprietario di Melbourne (E’ mia, non di Pasquale) e si dice anche pronto a uccidere il rivale (“Gli mangio la gola”). Ma soprattutto il racconto di un pentito ha spiegato alla polizia come nel sottobosco malavitoso di Melbourne tutti sapessero della taglia che Tony aveva da poco messo sulla testa dell’avvocato, colpevole a quanto pare, di aver cominciato a parlare un po’ troppo con i giornalisti e investigatori: 200.000 dollari australiani il prezzo.
UN ARRESTO A FIUMICINO. Chi li abbia incassati non si, ancora. Quello che si sa è che pochi giorni prima dell’omicidio, all’aeroporto di Fiumicino, i carabinieri di Locri avevano arrestato Antonio Vottari, 31 anni, accusato di gestire i traffici di droga tra il Sudamerica e l’Europa per conto delle cosche di San Luca. Rientrava da Melbourne, dove da anni trascorreva la sua latitanza, con un visto da studente.
Antonio Vottari
Le sorti della guerra mondiale della mafia la decidono in Calabria. Tutto parte da là. E tutto, prima o poi, là ritorna.
Il terremoto che ha colpito il centro Italia ha segnato per sempre intere famiglie, raso al suolo interi borghi e cittadine, stravolto il futuro di quelli che si potevano definire agglomerati urbani.
Nelle immagini drammatiche che arrivano in questi giorni dai luoghi colpiti, emerge un interrogativo forse destinato a non avere una risposta, ma che pesa inevitabilmente nelle coscienze di chi preposto, almeno sulla carta, ad occuparsi, oggi più di ieri, di certi temi.
A cinquant’anni da quell’estate in cui la frana di Agrigento provocò oltre settemila sfollati, tanto da far arrivare in città Moro, Saragat e diversi ministri, ci si chiede cosa succederebbe se il terremoto che ha colpito Amatrice, Accumoli, Arquata ed altri centri, avvenisse ad Agrigento. Non si tratta di fare catastrofismo, ma di possibili realtà. Quasi sicuramente il centro storico, la parte più fragile della città, non reggerebbe il colpo. Tutto ci dice che la prevenzione delle calamità naturali nelle città deve essere un tema centrale, un’esigenza, ma oggi è senza dubbio dimenticato.
L’amministrazione comunale in concomitanza con la protezione civile, per ricordare tra i preposti alla previsione, prevenzione, gestione di disastri, calamità naturali, dovrebbe rivedere la situazione di Agrigento.
Ad oggi si ha contezza definitiva, ovvero sarebbero fruibili le vie di fuga?Quali sono i punti di ritrovo in caso di calamità?La mappatura e la messa in sicurezza degli edifici pericolanti come l’informazione alla cittadinanza in caso di emergenza, in pratica, se non per sparuti casi, non esiste.
E parliamo dell’abc di tutti quei provvedimenti che dovrebbero essere instradati. Oggi le città devono fare i conti con scelte passate, spesso scellerate, di costruzione, oltre che con la fragilità del sottosuolo: occorre prevenire prima delle catastrofi.
Agrigento tutta ed in particolare il suo centro storico non sono certamente pronti a nulla, occorre svegliarsi, aprire gli occhi suoi temi importanti del futuro mai praticati in passato. Gli assessori comunali all’ambiente e al centro storico Fontana e Biondi, lo scorso mese davanti le telecamere di Rai news 24, parlando della loro città e ricordando vecchie calamità che l’hanno colpita, si sono mostrati conoscitori della materia. È probabile che i molti cittadini che oggi rappresentano, vogliano che – in altro modo – soprattutto loro si facciano promotori di azioni che accendano l’attenzione sull’importanza dell’incolumità degli agrigentini in caso di terremoti, frane, calamità in generale.
Restando in tema, con vero spirito di solidarietà, i volontari dell’associazione I lupi di Agrigento con Giuseppe Palermo col cane Raskal e Pietro Gentile col cane Talco, sono partiti per le zone disastrate del centro Italia e in queste ore stanno operando per cercare di salvare più vite possibili.
Tra le popolazioni colpite dal terremoto c’è anche quella di Girgenti, frazione di Pescorocchiano in provincia di Rieti e gemellata proprio con la provincia agrigentina.
Il sindaco di Agrigento Firetto ha dichiarato che il servizio comunale di Protezione Civile ha dato la propria disponibilità a fornire supporto con uomini e mezzi per l’emergenza in Centro Italia, atto nobile che dovrà proseguire però con l’attenzione proprio alla “sua” città che in caso di calamità naturali potrebbe subire danni incalcolabili, a partire dal centro storico con in testa la Cattedrale.
37,25 miliardi di euro nel 2015 il capitale prestato ad usura a famiglie e imprese che sommato ad almeno 44,7 miliardi di capitale restituito come interesse arriva ad un business totale annuo di quasi 82 miliardi di euro.
“Le organizzazioni criminali – spiega Gian Maria Fara, Presidente dell’Eurispes – hanno ben compreso che l’usura rappresenta un metodo di straordinaria efficacia: da un lato per riciclare denaro sporco e ottenere facilmente ingenti guadagni, dall’altro per impossessarsi di quelle imprese e attività che non sono in grado di far fronte ai debiti contratti, divenendo dapprima soci e in seguito veri e propri proprietari. Tutto questo con rischi più contenuti rispetto a quelli connessi ad altre attività illecite come ad esempio il traffico di stupefacenti.”
Secondo il Presidente dell’Eurispes: “La mafia – soprattutto dove e quando sia colpita da inchieste che ne disarticolano pesantemente alcune componenti – sceglie un comportamento “di tregua” che possa, fra l’altro, far scendere su di sé un cono d’ombra e rendere meno individuabile la sua organizzazione. In quest’ottica, seleziona le sue attività privilegiando quelle che consentono il massimo vantaggio col minor rischio e tra queste vi è certamente l’usura, attraverso la quale si perpetua un sistema di radicamento sui territori e di assoggettamento silenzioso quanto efficace”.
“Oggi – dichiara il Presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara – sappiamo che la figura dell’usuraio non è rintracciabile solo tra criminali e mafiosi, ma è presente anche tra gli “insospettabili”: negozianti, commercialisti, avvocati, dipendenti pubblici, che hanno sfruttato il lungo periodo di crisi economica e l’indebitamento di famiglie, commercianti ed imprenditori per arricchirsi, forti delle crescenti difficoltà di accesso al credito bancario. Ed è nata una nuova figura: quella dell’usuraio della stanza accanto.
Si tratta, evidentemente, – conclude Gian Maria Fara - di un problema di grande complessità che postula un approccio multidisciplinare che preveda, insieme alla repressione, un forte impegno sul fronte della prevenzione e quindi culturale. Ma, soprattutto, la individuazione di forme più flessibili e personalizzate di accesso al credito ufficiale che sottraggano, nei momenti di difficoltà, gli operatori economici e le famiglie alle insidie di un credito solo apparentemente facile ma funesto in sostanza”.
La stima per le famiglie è stata calcolata prendendo in considerazione le rilevazioni Eurispes secondo le quali in media negli ultimi due anni circa il 12% (su un totale di 24,6 milioni di famiglie) si è rivolto nel corso a soggetti privati (non parenti o amici) per ottenere un prestito, non potendolo ottenere dal sistema bancario. Si è quindi ipotizzato che il prestito ammonti, in media, a 10.000 euro (richiesti anche in diverse occasioni), per una cifra di 30 miliardi di euro per 3 milioni di nuclei famigliari in difficoltà.
Dal lato delle imprese, per il settore agricolo, si è stimato che il 10% delle circa 750.000 aziende agricole attive in Italia nel 2015 abbia avuto la necessità di richiedere denaro ad usurai. E che la somma media richiesta ammonti a 30.000 euro per un totale annuo di 2.250.000.000 euro.
Per le aziende del commercio e dei servizi (3,3 milioni attive), si stima, approssimando verso il basso, che una su 10 si sia rivolta agli usurai, con una cifra media di 15.000 euro in prestito per circa 5 miliardi di euro complessivi.
Il capitale prestato si aggirerebbe dunque sui 37,25 miliardi di euro. A questo dato va aggiunto un interesse medio sui prestiti del 10% al mese, ossia del 120% annuo (anche se è noto che generalmente i tassi sono ben più elevati), per un capitale restituito che aggiunge altri 44,7 miliardi di interesse ai 37,25 prestati, per un totale di 81,95 miliardi di euro.
Si tratta in ogni caso di un calcolo approssimativo per difetto a causa della significativa quota di “sommerso” che caratterizza un fenomeno criminale ben radicato come quello dell’usura.
Proprio la difficoltà metodologica nell’investigare statisticamente l’usura attraverso il solo dato ufficiale ha reso necessario la creazione di uno strumento ad hoc.
L’InPUT (Indice di Permeabilità dell’Usura nei Territori) realizzato dall’Eurispes è costruito dall’incrocio di 23 variabili socio-economiche per rappresentare la permeabilità o la vulnerabilità di una data provincia rispetto al fenomeno usura, in considerazione delle caratteristiche intrinseche alla provincia stessa e quindi sia dei fattori aggravanti (il livello della disoccupazione o i fenomeni estorsivi) sia di quelli lenitivi (ad esempio, il livello di ricchezza complessivo).
L’Indice è calcolato come combinazione lineare degli indicatori, opportunamente indicizzati e con pesi diversi in funzione della loro correlazione con il numero di reati di usura.
L’Indice assume valori da 0 a 100 in funzione crescente del grado di vulnerabilità del territorio aggregati in quattro classi di rischio usura (alto, medio-alto, medio-basso, basso).
Le regioni a maggior rischio usura sono quelle meridionali e insulari, ma il fenomeno sembra propagarsi, su scala geografica, anche nel Centro Italia, attestandosi su di un livello di rischio medio-alto.
Il rischio di permeabilità del territorio nazionale è pari a 44,0. Crotone (96,8), Siracusa (91,9), Foggia (86,1), Trapani (85,6), Vibo Valentia (82,1) e Palermo (81,9) rientrano nel novero delle prime sette Province ad alto rischio usura. In termini assoluti, la provincia più esposta risulta essere Parma (100,0). Questo risultato può dipendere sia dall’eccezionalità di accadimenti specifici sia, in termini generali, dal perdurare dello stato di sofferenza del tessuto produttivo e sociale locale a partire dall’inizio della crisi nel 2008. Tale interpretazione è sostenuta dalla presenza di altre province centro-settentrionali nella fascia di rischio denominata medio-alta, quali, ad esempio, Aosta (61,6), Imperia (52,7) e Biella (50,3).
Inoltre, il dato della Parma, per quanto possa sembrare sorprendente, deve essere considerato nel contesto dei reati denunciati negli ultimi anni: questi infatti hanno fatto registrare un andamento anomalo. Va altresì evidenziato come la numerosità delle denunce per usura e i risultati delle attività della Magistratura e delle Forze di polizia possiedano un peso considerevole nel calcolo dell’Indice.
La provincia di Agrigento è sempre stata una terra difficile da interpretare, studiare e, infine, provare a comprendere.
In termini di mafia è ormai conclamato, anche in sede giudiziaria, l’onnipresenza di Cosa Nostra in tutti quei settori fondamentali della vita quotidiana. E’ altrettanto risaputo come in questa provincia, più che in altre, il radicamento delle cosche mafiose all’interno di pezzi della società sia stato un processo lungo e silenzioso ma che, purtroppo, ci ha consegnato una porzione di terra veramente ammalata di un male che, con il passare del tempo e nonostante le diverse operazioni delle forze dell’ordine, sembra sia più pungente e meno spettacolare di un tempo.
D’altronde, ed è la storia che ce lo insegna, la provincia di Agrigento da sempre rappresenta una delle roccaforti di Cosa Nostra. Non è neanche difficile provare a spiegare il motivo di questo forte metabolismo con cui i clan si sono infiltrati nei gangli vitali della società agrigentina e, soprattutto, di come l’omertà sia all’interno della struttura criminale ma, ancora più grave, nella società civile (fortunatamente non tutta) uno dei tratti distintivi. Leonardo Sciascia, scrittore agrigentino che della mafia aveva provato a studiarne le origini e le cause che ne avevano spianato la strada, affermava che gli agrigentini avevano in qualche modo metabolizzato, dall’immediato dopoguerra in poi, un certo modo di fare, di essere che, nel corso del tempo, si è imposto come peculiarità tipica del comportamento della società agrigentina e più in generale siciliana. E’ importante, dunque, avere chiaro e ben scolpito in mente in che tipo di contesto sociale ed economico si opera e in che termini Cosa Nostra ha avuto vantaggi, dal comportamento omertoso operato da gran parte della società agrigentina, ma anche svantaggi e gravi colpi inferti dallo Stato grazie alla rottura, all’interno della struttura criminale, proprio di quel tratto omertoso che ne aveva contraddistinto la storia fino agli inizi degli anni 90.
Non è un caso, infatti, che i primi pentiti che parlano e rendono dichiarazioni sulla mafia della provincia di Agrigento non siano agrigentini bensì uomini appartenenti ad altre consorterie mafiose di altre province.
A questo punto appare necessario operare una suddivisione in due grandi blocchi in cui si collocano idealmente due generazioni di pentiti: nel primo raggruppamento, che può essere contestualizzato dalla metà degli anni 90, appartengono i primi esponenti agrigentini, in modo particolare empedoclini, che hanno intrapreso il percorso di collaboratori di giustizia e che, proprio perché rappresentano una “prima volta assoluta”, sono stati decisivi più di altri nel fornire informazioni sulla struttura di Cosa Nostra, dettagli su omicidi, fornendo una linea guida da seguire. Dalle dichiarazioni di suddetti pentiti, inoltre, provengono le maxi operazioni antimafia Akragas I e Akragas II, tra il 1998 ed il 1999, che ancora oggi rappresentano forse il più grande colpo inflitto a Cosa Nostra agrigentina. Pasquale Salemi, inteso Maraschino; Alfonso Falzone e Giulio Albanese. Tutti originari di Porto Empedocle, paese che ha da sempre fornito “personale” di spessore a Cosa Nostra, sono loro i primi che hanno cominciato a far tremare la terra da sotto i piedi dei mafiosi agrigentini. Dalle loro rivelazioni è emerso un sistema altamente complesso, suddiviso in “province”, “mandamenti” e “famiglie”, all’interno del quale sarebbe impossibile accedere se non superando le prove di un rigido rituale di affiliazione.
Oltre a ciò, la disposizione dei gruppi agrigentini verrebbe connotata da una forte caratterizzazione individuale, che farebbe attribuire il “mandamento” al luogo d’origine del soggetto deputato a rappresentarlo, e non al paese stesso come nella procedura palermitana. loro i primi che hanno descritto le famiglie, i mandamenti, le dinamiche interne all’organizzazione. Tre persone che hanno alle spalle una propria storia, diverse l’una dall’altra, che però ci daranno importanti spunti per capire le personalità che abbiamo di fronte. Inoltre, i numerosi riscontri alle loro preziose dichiarazioni hanno permesso – e permettono tutt’ora – di ricostruire l’intero organigramma di “Cosa nostra”agrigentina, individuandone i rappresentanti provinciali che via via si sono succeduti al comando, e, a cascata, i capi dei “mandamenti” nonché gli affiliati delle numerosissime “famiglie”. Il secondo raggruppamento, in cui abbiamo suddiviso idealmente i pentiti dell’agrigentino, rappresentano i più recenti contributi collaborativi che hanno fornito agli inquirenti un ulteriore valido aiuto alla comprensione dell’assetto criminale – mafioso nell’agrigentino e di come essa sia un’organizzazione spietata e saldamente radicata su tutto il territorio provinciale ma operativa anche in altre regioni. In questo gruppo, inoltre, verranno analizzate le posizioni di criminali, oggi pentiti, che hanno ricoperto un ruolo di primo piano all’interno del sodalizio mafioso nell’agrigentino.
E’ il caso di Maurizio Di Gati, barbiere di Racalmuto ,al vertice della Cupola agrigentina dal 2002 fino al momento dello scontro con il rivale di Campobello di Licata, Giuseppe Falsone. Il pentimento di Di Gati ha ovviamente spalancato porte agli inquirenti fornendo testimonianze di assoluto rilievo; un ruolo di vertice all’interno della famiglia mafiosa di Porto Empedocle lo ha avuto sicuramente Luigi Putrone, per gli amici “Luvici”: senza il suo permesso, dal 1998 al 2005 quando venne catturato in Repubblica Ceca, non si muoveva foglia a Porto Empedocle. Neanche un anno dopo, il giorno in cui morì la madre, Putrone decise di collaborare con la giustizia e cominciò a parlare. Parlò di morte, arrecata in nome di un ideale mafioso. Notevoli, infine, sono stati i contributi forniti agli inquirenti dai pentiti Calogero Rizzuto, alias “cavigliuni”, a capo della famiglia mafiosa di Sambuca di Sicilia che ha permesso di ridisegnare gli assetti della mafia nella Valle del Belice, e Giuseppe Sardino, ex consigliere comunale di Naro, collante tra mafia e politica oltre ad essere stato un fedelissimo della primula agrigentina, Giuseppe Falsone, arrestato a Marsiglia da capo mafia della mafia agrigentina il 25 Giugno 2010. Un paragrafo tutto suo, infine, merita certamente Giuseppe Tuzzolino, architetto agrigentino finito in carcere per reati contro il patrimonio che, nonostante abbia scontato la sua pena, ha deciso di compiere il salto e intraprendere la strada della collaborazione con la giustizia. Tuzzolino è sicuramente un pentito “sui generis”: i riscontri delle sue dichiarazioni sono attualmente al vaglio degli inquirenti che, però, non hanno ancora di certo “bollato” la sua posizione. L’architetto pentito è un fiume in piena e rappresenta di certo il più recente contributo (da verificare) inerenti a summit di mafia, incontri, accordi politici e massoneria. Proviamo a parlarne meglio. LA STORIA DI MARASCHINO, IL PENTITO DALLE MILLE GIRAVOLTE.Pasquale Salemi è un personaggio alquanto ambiguo. Sono ancora vive le ormai storiche immagini delle televisioni che lo riprendono all’interno dell’aula bunker di Villaseta dove si è celebrato il processo contro i vertici della mafia empedoclina, nel 1989. Maraschino a fatica veniva trattenuto dagli altri detenuti presenti: urla, insulti, minacce. Questa breve ma intensa descrizione ci chiarisce fin da subito il personaggio che abbiamo davanti. Sono numerose le giravolte effettuate da Salemi: a servizio della mafia “da marina”, primo cugino di Gerlandino Messina, super boss di Porto Empedocle, ed imparentato con altri affiliati riconducibile proprio al clan Messina che, in quegli anni, proveniva da una sanguinosa guerra di mafia contro la Stiddra. Condannato all’ergastolo per l’omicidio di Antonio Messina, inteso “u birgisi”, a Realmonte, Maraschino inizia a traballare. Dissidi sopraggiunti con l’allora capo mafia Luigi Putrone , che lo “posò”, hanno accelerato solamente il pentimento. Anche perché Maraschino fiutava aria di morte e le acque per lui si erano fatte terribilmente mosse. In paese trapelavano notizie di un possibile pentimento e, in un batter d’occhio, apparirono sulle mura di “Vigata” manifesti funebri intestati a Salemi. Così, nel maggio 1997, Maraschino si presenta alle porte degli inquirenti e comincia la sua strada da collaboratore. Neanche un anno dopo scatta prima grande operazione antimafia nell’agrigentino, Akragas I, che infligge un durissimo colpo alla mafia del suo paese d’origine. Parla, definisce dettagli ma tiene fuori dalle accuse i suoi parenti, i Messina, che scamperanno alla prima tranche del blitz. Torna alla ribalta delle cronache recentemente e lo fa in pieno stile Salemi. 8 Ottobre 2015: la Direzione Distrettuale Antimafia toglie dal programma di protezione il nome di Pasquale Salemi. Ancora una volta, forse l’ultima, Maraschino compie l’ennesima giravolta: viene pizzicato, infatti, a contattare parenti e conoscenti di Porto Empedocle per ottenere informazioni sullo stato di Cosa Nostra e poter girare a proprio vantaggio quanto appreso. Analogamente, Maraschino viene ulteriormente intercettato mentre, al telefono con una donna pregiudicata, indicava la via, oltre a chiederle di fornirgli un pc, per “vendere” collaboratori di giustizia. Ed ancora, è stato confermato come Salemi avesse messo su un vero e proprio giro di affari che gli permettesse, cercando nuove conviventi da inserire nel programma di protezione, di poter dividere i proventi dei contributi derivanti dallo status di pentito. Questo è Maraschino.
ALFONSO FALZONE, COLLABORATORE DOPO ESSER RIMASTO FERITO.“Ero disoccupato e cercavo un lavoro. Mi venne proposto di far parte della mafia, scelsero me perché sapevano che mi piaceva farmi rispettare. Non sono stato solo un egoista, di più: ho tradito la fiducia dei miei genitori. Racconto la mia storia perché voglio evitare che altri ragazzi ripetano i miei stessi errori, devono sapere che considero la mia vita un fallimento. Invito i mafiosi a ravvedersi: non è vero che da Cosa Nostra si può uscire solo da morti o se arrestati. Ora c’è la legge per diventare collaboratori di giustizia che consente di saldare i propri debiti con lo Stato e dare un futuro alla propria famiglia. La gente deve imparare a reagire alla mafia, dopo i miei omicidi io vedevo un paese rassegnato. Ho ucciso, fatto sequestri e violenze: non era questo che volevo per la mia vita”. Non esistono migliori parole se non quelle proveniente direttamente dalla bocca di un’altra pietra miliare dei collaboratori di giustizia agrigentini. Lui è Alfonso Falzone, appartenente alla cosca di Porto Empedocle, e queste parole sono un reperto praticamente storico rilasciate in un libro-intervista al collega Alfonso Bugea, peraltro suo ex compagno di scuola. Uno dei killer più esperti e freddi di Cosa Nostra, Falzone riscrive intere pagine della mafia agrigentina e, soprattutto, il contributo in termini di chiarezza ed efficenza che offre allo Stato ha pochi eguali. E’ grazie alle sue dichiarazioni che, questa volta con nomi e cognomi anche del clan Messina, riesce a far arrestare i mafiosi che erano scampati al blitz “Akragas I”. Sempre Falzone spiega: “Cosa Nostra il venerdì non ha mai ammazzato”, riferendosi a quegli omicidi rimasti senza un colpevole e senza una pista da seguire. Nel Gennaio del 1999 riesce, grazie alle sue dichiarazioni, a far arrestare uno dei più spietati killer agrigentini, il favarese Giuseppe Fanara. Spiega le dinamiche di uno dei sequestri più mediatici e sconvolgenti della storia della mafia: il sequestro del piccolo Di Matteo, figlio del pentito Santino a cui Cosa Nostra aveva deciso di presentare il conto per non aver rispettato la prima regola fondamentale: l’omertà. Fa luce sui 21 omicidi che Cosa Nostra compie dal 1990 al 1994 nella provincia di Agrigento, facendo chiarezza anche sull’omicidio, avvenuto nel 92 a Sciacca, di Pasquale Di Lorenzo, agente della polizia penitenziaria, scelto come esempio da dare a tutti gli altri agenti che non si piegavano alle richieste dei boss da dietro le sbarre. Alfonso Falzone, inoltre, è stato il collaboratore di giustizia che ha fatto, una volta per tutte, chiarezza sull’omicidio del “mastino” Giuliano Guazzelli, maresciallo dei carabinieri barbaramente assassinato sul Ponte Morandi, arteria che collega Agrigento a Porto Empedocle. Dopo grandi sviste giudiziarie, che avevano peraltro portato a condannare esponenti stiddari che nulla avevano a che veder con l’omicidio Guazzelli, Falzone riesce a fare nomi e cognomi dei killer e delle dinamiche dell’uccisione del maresciallo. Il pentimento di Falzone arriva in maniera rocambolesca. In un gruppo di fuoco partito alla volta del ristorante “Lo Zingaro”, situato a Villaggio Mosè, rimane ferito di striscio da una pallottola esplosa dal compare Gerlandino Messina. Il sangue e il relativo test del Dna fecero il resto, accelerando sicuramente il processo di pentimento del Falzone.
Personale della Squadra mobile di Agrigento, guidato dal dottor Giovanni Minardi, nel corso di un servizio di polizia giudiziaria, finalizzato alla prevenzione e alla repressione di reati in materia di stupefacenti svolto in Favara, ha proceduto al controllo di un furgone sul quale viaggiavano Giuseppe Brunco, 34 anni e Santo Allegro di 35 anni entrambi residenti a Naro.
A seguito della perquisizione del mezzo, il personale della sezione antidroga della Squadra mobile rinveniva, all’interno del vano anteriore dell’autocarro, due scatole contenenti complessivamente 21 flaconi di sostanza del tipo “metadone cloridato Molteni” di 1 mg/ml di soluzione orale.
Metadone sequestrato
I due uomini venivano arrestati per detenzione e trasporto di sostanza stupefacente e posti agli arresti domiciliari, su disposizione della Procura della Repubblica di Agrigento.
Successivamente il Gip del Tribunale di Agrigento, Zammuto, dopo la convalida dell’arresto, avvenuta ieri, disponeva le misure dell’obbligo di dimora per Giuseppe Brunco e dell’obbligo di presentazione alla P.G., tutti i giorni, per Santo Allegro. Ma chi è, in particolare, Giuseppe Brunco? Il suo nome è venuto fuori nell’ambito dell’inchiesta antimafia “Vultur” (avvoltoio).
L’uomo è stato indicato quale appartenente all’associazione mafiosa di Camastra capeggiata da Rosario Meli detto “Saru u puparu”. E per Brunco la Direzione distrettuale antimafia di Palermo, conseguentemente alla consegna di un rapporto giudiziario della Squadra mobile di Agrigento aveva chiesto al Gip del Tribunale di Palermo la sua cattura. Cattura non disposta e Brunco potè rimanere in libertà, sino allo scorso 23 agosto quando è stato beccato con le confezioni di metadone. Arresti durati poco, il Gip affievolendo la misura, ha disposto l’obbligo di dimora.
Con l’ordinanza “Vultur” gli investigatori hanno delineato la personalità del giovane non riuscendo tuttavia a provarne l’affiliazione mafiosa.
Ecco, infatti cosa scrive il Gip del Tribunale di Palermo: “L’addebito di partecipazione all’associazione di tipo mafioso nei confronti di Meli Rosario, con ruolo di direzione, nonché nei confronti di Meli Vincenzo, Meli Giuseppe, Meli Rita, Piombo Calogero, Di Caro Biagio, Prato Angelo e Brunco Giuseppe.
Il Pubblico Ministero contesta agli indagati l’appartenenza ad un’associazione di tipo mafioso operante in Camastra.
Nei confronti di Meli Rosario e Meli Vincenzo, tenuto conto delle precedenti condanne irrevocabili nei confronti degli stessi per la medesima fattispecie di reato, la contestazione è riferita al tempo successivo a quello coperto dal giudicato e, precisamente, “dal febbraio 1993”.
Può subito dirsi che gli elementi raccolti dagli inquirenti e rassegnati nella richiesta sulla quale si provvede sono enucleabili in termini di gravità indiziaria, con riferimento alle ipotesi d’accusa qui considerate, solo rispetto alle posizioni di Meli Rosario, Meli Vincenzo e Piombo Calogero.
Non anche, invece, rispetto alle posizioni degli altri soggetti e, segnatamente, di Meli Giuseppe, Meli Rita, Di Caro Biagio, Prato Angelo e Brunco Giuseppe.
Nell’attuale momento storico in cui stiamo vivendo appare evidente lo stato di disagio sociale e degrado culturale generale, con il livello di disoccupazione giovanile alle stelle e la crescita demografica pari allo zero qualsiasi previsione di crescita e sviluppo sembrerebbe un miraggio.
Ma l’idea che giovani di questa realtà, spinti proprio da quest’onda negativa che opprime e disintegra i rapporti umani si facciano promotori di una svolta di un territorio che tutto sembra tranne che in evoluzione, denota che di sottosviluppato ci sia solo il cervello di chi giudica senza rendersi conto dell’effettivo potenziale di questi uomini del 2° rinascimento. Chi li giudica, però, sono lo stesse persone che fin ora hanno portato il meridione, ma soprattutto la Sicilia, ad un’esistenza tendente al regresso, atteggiamento tipico di chi vuole governare come nel medioevo dominando un popolo ignorante.
I giovani di cui voglio parlare non sono singoli ma gruppi di ragazzi che si propongono e che vogliono attivare il miglioramento dello stato fisico dei luoghi e rigenerare quello psichico delle persone, cresciuti in questi contesti in cui è difficile sopravvivere e dove la malapolitica e il malaffare hanno solo preso con un forte spirito prevaricatore, ma è a questo punto che si vede veramente chi è un vero capitano di vascello cioè quando il mare è in tempesta.
E’ lo spirito di adattamento che spinge questi giovani a riformulare i concetti di solito in insolito e caratteristico e lo fanno con l’uso dell’arte e del rispetto dell’ambiente proprio in quei posti dove finora tutto è stato lasciato ad un lento e inesorabile impoverimento, ma di cosa si parla?
Sono gruppi che muovono gli animi delle persone che dormono quel sonno voluto dai potenti che per una manciata di voti li hanno impiegati, bella la vita per chi ha venduto l’anima al diavolo, loro invece no si propongono come l’albero motore di un trattore che lavora senza sosta che non va ne a nafta ne a benzina ma spinti da un sentimento Aureo che niente ha a che fare con l’interesse personale. Sono spinti dallo spirito di voler riconvertire tutto ciò che è stato lasciato all’incuria e nato dalla speculazione edilizia degli anni 70-80 che ha fatto leva su disastri ambientali e calamità naturali che colpivano il territorio italiano da sempre a rischio sismico.
Questi giovani si occupano del terzo settore. Un po’ strana come parola ma in Italia il termine si è diffuso verso la fine degli anni ottanta e, anche se non tipico del nostro contesto culturale, ha convogliato su di sé l’interesse degli studiosi che si occupano delle organizzazioni no profit .
Proprio il tema del no profit fu oggetto dei primi studi da parte degli economisti, volti a individuare classificazioni di questo fenomeno, a conferirgli una piena dignità nell’analisi economica, a studiarne il ruolo all’interno del sistema di Welfare. Il loro piano di azione si sviluppa con interventi di riqualificazione del territorio e rigenerazione urbana, aumento della fruizione dei servizi e nel concreto con organizzazioni di festival, guerrilla gardening, street art, landscape architecture tutto connesso da una grande forza di volontà per cambiare quella società che gli ha dato i natali ma non li vuole più sostenere come se una madre ripudiasse i propri figli, quindi sentendo la necessità di opporsi lo fanno nella giusta forma, attraverso l’arte e la cultura.
A questo punto i nomi dei Team più presenti meritevoli di encomio sono: Arch It Lab, un laboratorio di architettura itinerante di progettazione volto allo sviluppo progetti sul tema della rigenerazione degli spazi urbani; TrasFormazioni, un laboratorio di innovazione sociale di promozione culturale e di eventi; Forum Giovani, un’associazione che promuove attività ludico-culturali manifestazioni come l’Art and Music Fest in un’ottica di cooperazione multidisciplinare; Mariterra, associazione culturale di promozione sociale e turistica; l’Edicola dell’Innovazione, che promuove l’imprenditoria del Sud Italia nonostante le difficoltà economiche –finanziarie; La Stiva, un centro di sperimentazione di nuovi linguaggi e metodi di comunicazione e innovazione culturale; Collettivo SempliCittà, un laboratorio che promuove lo sviluppo delle bellezze delle tradizioni della nostra terra.
“Credo che anche il governo della Regione Siciliana debba avvertire il dovere morale di intervenire sul premier Paolo Gentiloni, affinché siano concessi i benefici della legge Bacchelli al giornalista siciliano Riccardo Orioles, che vive, bisognoso di cure e in età pensionabile, nella sua Milazzo, in provincia di Messina.”
Riccardo Orioles
Interviene così Nello Musumeci, presidente della Commissione Regionale Antimafia, in merito alla vicenda di Riccardo Orioles, giornalista co-fondantore de “I Siciliani” insieme a Pippo Fava che si ritrova oggi a sopravvivere con una pensione di 400,000€.
Sarebbe il giusto riconoscimento ad un lungo, appassionato e coraggioso impegno professionale profuso nella trincea più difficile: quella della denuncia e della lotta ad ogni forma di mafia”. Lo dichiara il presidente della Commissione regionale Antimafia Nello Musumeci, dopo la petizione pubblica lanciata nei giorni scorsi a favore del noto giornalista.
“Alla ripresa dei lavori parlamentari – aggiunge Musumeci – formalizzerò al presidente dell’Ars la richiesta, affinché nella conferenza dei capigruppo la proposta possa essere condivisa da tutta l’Assemblea”.
Cosa hanno in comune il proprietario di una struttura ricettiva, magari dal passato glorioso e stellato, ed il proprietario di un immobile in disuso, dismesso, segnato dal tempo e dalla non curanza? A primo impatto verrebbe da dire niente. Ma non è così. Difatti, se ci si fermasse ad analizzare più in profondità la questione, scopriremmo che qualcosina in comune ce l’hanno. Per esempio, aver scoperto il business di migranti.
Trattare una tematica del genere, che raccoglie in se diverse sfumature, da quella prettamente sociale passando per quella economica, è pratica da maneggiare con cura. Soprattutto in una terra come la provincia di Agrigento, che rappresenta sia il primo snodo prettamente geografico e, dunque, una delle prime zone in cui il fenomeno migratorio insiste con più frequenza, sia una porzione di Sicilia in cui fattori come l’immobilismo sociale, la stagnazione economica e preoccupanti percentuali sulla disoccupazione condizionano e non poco la vita quotidiana dei suoi abitanti.
Dunque, appare abbastanza evidente come, più che in altre zone, il fenomeno migratorio faccia ormai parte di un tessuto sociale che è quello agrigentino. Quello che qui si vuole descrivere, analizzare e possibilmente comprendere in pieno sono i passaggi chiave che portano, oggi, un imprenditore ad investire in questo settore piuttosto che in altri, convertire alberghi stellati in centri di accoglienza e dare un contorno al fenomeno stesso: in che modo viene trattato e chi, ovviamente, ci guadagna. Che sia chiaro, quello che emerge non sono rose e fiori. Anzi, si riafferma ancora una volta la consueta equazione che domani gli equilibri: dove ci sono i soldi c’è criminalità organizzata.
E dove c’è criminalità organizzata c’è morte.
Ricordate l’ormai famosa frase intercettata, nell’ambito di “Mafia Capitale”, di Salvatore Buzzi, ras delle Coop sociali e braccio destro del “cecato” Re di Roma, Massimo Carminati? “Con gli immigrati ce faccio un sacco de sordi, rende molto di più del traffico di droga”. Era il dicembre 2014. Nella provincia di Agrigento, quasi dieci anni prima, nel 2007, Cosa Nostra si era mossa in tale direzione mostrando una spiccata propensione agli affari (come sempre) ma, ancora peggio, una velocità d’azione e di pensiero molto più concreta di quella mostrata da chi dovrebbe contrastarli. Prima, però, di addentrarci nell’inquietante binomio tra accoglienza migranti e Cosa Nostra, bisogna fare una doverosa premessa. In provincia di Agrigento appare ancora oggi veramente difficile avere una reale cognizione del fenomeno dal punto di vista numerico.
COSA NOSTRA SPA. Come si diceva, dove ci sono i soldi c’è Cosa Nostra. In particolare, in provincia di Agrigento, le famiglie mafiose cominciano ad interessarsi del possibile business ricavato dall’emergenza migranti quando, in realtà, non esiste ancora una vera e propria “emergenza migranti”.
Siamo nel 2005/2006: periodo di fermento, di ricerca di nuovi orizzonti scorrono nelle viscere delle famiglie agrigentine; cambia il vertice della Cupola dopo una lotta interna tra Maurizio Di Gati, il barbiere di Racalmuto, e il giovane rampollo di Campobello di Licata, Giuseppe Falsone. Lo scontro, terminato sul nascere con l’omicidio del braccio destro di Di Gati, Carmelo Milioti, sancì la vittoria di quello che sarebbe stato il capo indiscusso di Cosa Nostra agrigentina fino al suo arresto, a Marsiglia, nel 2010. Un anno dopo il suo arresto Maurizio Di Gati decide di collaborare con la giustizia: è la prima volta nella lunga storia mafiosa agrigentina che un capo mandamento sceglie di vuotare il sacco. E sono tante le cose che il barbiere di Racalmuto racconta: omicidi, appalti, nuove frontiere, tensioni interne,nascondigli,profili dei latitanti. Ma una, fra le tante cose dichiarate che fanno oggi di Di Gati uno dei più attendibili collaboratori di giustizia, risuona drammaticamente profetica visto che le dice nel 2007, quasi dieci anni prima dello scoppio dell’ “emergenza migranti”. Di Gati anticipa , e di molto, i tempi dichiarando come Cosa Nostra avesse da tempo individuato un’altra possibile fonte di guadagno, un business dal potenziale fine mai, nell’accoglienza dei migranti.
La mafia agrigentina, dunque, aveva le idee ben chiare.
Recuperare grandi locali magari in disuso (magazzini, capannoni attrezzati e locali simili) ristrutturarli e con l’aiuto della politica gestire l’assistenza e il ricovero degli extra comunitari. E, coincidenza vuole, che proprio in quegli anni comincia un proliferare di continue manifestazioni e iniziative volte a sfruttare il fenomeno della migrazione.
Di conseguenza, ad aumentare sono anche le richieste, in nome della solidarietà e della fratellanza, di apertura di centri di accoglienza per minori. Attenzione, fortunatamente c’è chi dell’accoglienza la fa veramente. Tante brave persone che mettono a disposizione competenza,passione e tempo per uno scopo nobile, per aiutare realmente i migranti in una operazione di inserimento e coinvolgimento sociale. Ma forse a qualcuno è sfuggito qualcosa. Perché risulta abbastanza prevedibile, in un contesto socio-economico devastato come quello agrigentino in cui Cosa Nostra,peraltro, dimostra da decenni di avere un controllo quasi capillare del territorio ed una capacità di riorganizzazione notevole, possibili infiltrazioni delle cosche, in un affare a molti zeri, con il rischio di tangenti per comprare e aggirare le leggi in materia di permessi e licenze.
A tal proposito, appare indispensabile fare una riflessione su quanto detto, e riportato nero su bianco, il collaboratore di giustizia ed ex primula di Cosa Nostra agrigentina, Maurizio Di Gati.
Vincenzo Lo Giudice
E’ il 21 marzo 2007, ore 15.56. L’ex capo della mafia agrigentina siede, in un carcere di una località non resa nota per motivi di sicurezza, davanti al sostituto procuratore della Repubblica e componente della Dda di Palermo Gianfranco Scarfò (oggi in servizio in altra città). Sono ancora le prime ore di un pomeriggio di primavera ma il colloquio va avanti da diverse ore e sfiora tanti temi: omicidi, tangenti e politica. Proprio su quest’ultima si sofferma e, guardando il sostituto procuratore, narra di un uomo vicino all’allora Onorevole Vincenzo Lo Giudice, deputato dell’Ars di Canicattì, coinvolto e arrestato nel blitz “Alta Mafia” del 2004. “Devo riferire che quest’uomo è un soggetto che opera a Favara ed è molto vicino a Vincenzo Lo Giudice, tanto da essere stato favorito dallo stesso nella sua attività. La sua impresa si occupa della posa di cavi elettrici. Quest’uomo inoltre ho successivamente appreso essere collegato ad un soggetto che lavora alla Questura di Agrigento e che si occupa della allocazione degli extracomunitari provenienti da Lampedusa. Tramite Giuseppe Quaranta di Favara quest’uomo mi propose di trovare dei capannoni per ospitare gli extracomunitari a spese dello Stato. So che quest’uomo ha realizzato questo progetto ma non con me. Per esempio una cosa simile è successa in contrada Noce a Racalmuto dove Vaccaro Antonio, del mandamento di Favara e consigliere di Falsone Giuseppe per la provincia ha, attraverso prestanome, affittato capannoni a questo scopo”.Il quadro che già allora si era delineato appariva preoccupante. La politica aveva chiesto alla mafia di concretizzare un affare dai ricavi miliardari. Oggi, a distanza di quasi un decennio, osserviamo le conseguenze.
IL VERBALE DI GATI.21 febbraio 2007 ore 15.50 in struttura carceraria che si omette di indicare per ragioni di sicurezza, avanti al Sostituto Procuratore della Repubblica dott. Gianfranco Scarfò: “Tornando ad omissis, devo riferire che è soggetto che opera a Favara ed è molto vicino a Vincenzo Lo Giudice, tanto da essere stato favorito dallo stesso nella sua attività. La sua impresa si occupa della posa di cavi elettrici. Questo omissis inoltre ho successivamente appreso essere collegato ad un soggetto che lavora alla Questura di Agrigento e che si occupa della allocazione degli extracomunitari provenienti da Lampedusa. Tramite Giuseppe Quaranta di Favara omissis mi propose di trovare dei capannoni per ospitare gli extracomunitari a spese dello Stato. So che omississ ha realizzato questo progetto ma non con me. Per esempio una cosa simile è successa in contrada Noce a Racalmuto dove Antonio Vaccaro, del mandamento di Favara e consigliere di Giuseppe Falsone per la provincia ha, attraverso prestanome, affittato capannoni a questo scopo”.
Lampedusa, l’ultimo incendio al centro di accoglienza (archivio)
CONFUSIONE SUI NUMERI. Le motivazioni che ci portano sostanzialmente ad essere impreparati sono diverse: i monitoraggi finora effettuati non permettono un’analisi concreta e minuziosa. I comportamenti illegali all’interno di questo circuito sono tanto silenziosi quanto presenti:strutture vincolate ad un numero limite di migranti che, in realtà, ne ospitano il doppio. Rimborsi di quote destinate al pagamento di figure professionali necessarie che vengono spese o, peggio ancora, intascate da altri. E’ un business senza fine proprio perché al momento incontrollabile. Per un centro di accoglienza che apre seguendo gli standard imposti ce ne sono altri due, abusivi, possibilmente in case private, B&B o magazzini che aprono. I dati non vengono calibrati con quelli comunali o provinciali (basti collegarsi al sito internet di entrambi gli Enti). Addirittura, i dati ufficiali del Ministero dell’Interno si fermano al 2014. Non proprio un aggiornamento costante. Analogamente avviene con il portale della Prefettura di Agrigento che, nientedimeno, è fermo al 2013. L’unica possibilità che si ha per far un quadro generale sul fenomeno dell’accoglienza è quella di confrontare i numeri che derivano dalla Regione e dal Comune che poi sono quelli che si occupano dell’accreditamento delle strutture per minori non accompagnati. Seguendo, dunque, questo criterio è possibile tracciare un percorso. Per esempio, si evince come per il triennio 2016-2019 i costi previsti per l’accoglienza nelle strutture per richiedenti asilo si avvicinino a quasi 15 milioni di euro, per la precisione 13.291.845€. L’epicentro del fenomeno, in provincia, è la città di Agrigento dove ufficialmente i posti accreditati sono 165. Anche qui, però, si presenta il problema del monitoraggio effettivo e della scadente qualità dei controlli che lasciano presupporre come, di fatto, i numeri possano essere ancora più corposi di quelli qui effettivamente presentati. Subito dopo il capoluogo, ci sono altri centri come Licata, 100 posti, Racalmuto, con 60 posti, e Santa Elisabetta, con 50. Anche in questo caso i numeri servono più da indicazione piuttosto che una reale e minuziosa opera di schedatura e monitoraggio. La cosa più grave, peraltro abbastanza logica, è che più piccoli sono i paesini più difficile è avere un effettivo rendiconto. Occorre salire su un’auto, girare i piccoli centri della provincia di Agrigento, e guardare con i propri occhi. Teoricamente, ma molto teoricamente, la stella polare da seguire sarebbe il rapporto (non ancora vincolante ma che lo sarà si spera presto) del Ministero dell’Interno che dice: tre migranti per ogni abitante. Ad oggi, appunto, è pura teoria.
(ansa)
Discorso ancora più complicato per i cosiddetti MSNA (Minori stranieri non accompagnati). In tal caso vi è ancora più confusione. Chi si occupa di questo settore è l’assessore regionale alla Famiglia. Anche questa volta, visitando il sito internet, appare quasi impossibile riuscire ad avere contezza reale della portata del fenomeno. Agrigento e Licata, ancora una volta, hanno la maggiore concentrazione di posti, rispettivamente 83 e 53. Ma questi sono centri dichiarati di “primissima accoglienza” anche se, realmente, non è sempre stato così. Le coop sociali che si occupano di questo fenomeno, soltanto ad Agrigento, sono 133 e tendenzialmente sono piccole strutture , che ospitano al massimo 10 migranti. Nell’ultimo anno, da Gennaio a Settembre, sono stati circa 12.000 i migranti giunti tra Lampedusa e Porto Empedocle.
Gli uomini della Digos, il giorno dell’epifania, hanno sequestrato numerosi faldoni dagli uffici del Provveditorato, dell’Inps e dell’Asp. Al vaglio le posizioni di medici, insegnanti e personale scolastico.
Ufficio Scolastico Provinciale, Inps e Asp. Sono questi i luoghi in cui gli uomini della Digos di Agrigento, nel giorno dell’epifania, hanno effettuato un blitz in cui hanno sequestrato diversi faldoni riguardanti le posizioni di insegnanti, personale scolastico e medici.
La documentazione sequestrata è al vaglio degli investigatori che cercano riscontri ai sospetti di decine e decine di certificati medici altrettanto sospetti. Incartamenti riguardanti patologie e cartelle mediche sono finite nelle mani degli inquirenti.
La vicenda si inserisce nell’ormai tristemente famoso scandalo delle “104”, la legge che permette di godere di benefici, diretti o indiretti, se riscontrati e verificati handicap o patologie all’interessato ad un parente prossimo.
L’indagine, che in breve tempo diventò un vero e proprio scandalo in tutto il territorio nazionale, ebbe inizio nel settembre 2014 quando finirono in carcere 19 persone, di cui 10 medici, su richiesta dell’allora procuratore della Repubblica Renato Di Natale, dell’aggiunto Ignazio Fonzo e del sostituto Andrea Maggioni.
Gli inquirenti, allora, riuscirono a dare dei contorni ad un ben collaudato sistema clientelare e corruttivo legato all’invalidità per ottenere benefici della Legge 104. Ma fu solo l’inizio.
In breve tempo, infatti, l’indagine prese il largo: lo scorso ottobre furono iscritti nel registro degli indagati, in continuazione alla prima operazione del 2014, altre 252 persone: oltre 100 sono i medici che operano in Provincia ai quali si aggiungono insegnanti, bidelli e personale scolastico.
A pochi giorni dall’inizio del nuovo anno l’indagine si allarga nuovamente: adesso al vaglio degli inquirenti ci sono le posizioni di 54 insegnati della scuola primaria e la curiosa casualità che ne vede, su 54, ben 52 nominati direttamente grazie all’uso della legge 104.
L’inchiesta è coordinata dal nuovo procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, dal procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e condotta dal sostituto procuratore Andrea Maggioni.
Ilaria Capua è una famosa virologa e politica italiana, nota per i suoi studi sui virus influenzali e, in particolare, sull’influenza aviaria.
Dal 2013 al 2016 è stata deputata per Scelta Civica.
Nel 2006 ebbe notevole risonanza internazionale la sua decisione di rendere pubblica la sequenza genetica del virus dell’aviaria, dando il via allo sviluppo della cosiddetta scienza open-source, e iniziando a promuovere una campagna internazionale a favore del libero accesso ai dati sulle sequenze genetiche dei virus influenzali. Per questo la rivista Seed l’ha eletta “mente rivoluzionaria” ed è entrata fra i 50 scienziati top di Scientific American.
Una benemerita della scienza ed un vanto per la Nazione.
Invece di essere premiata ed additata ad esempio, specie per i giovani, ad aprile 2014 diventa oggetto delle “attenzioni” del settimanale l’Espresso, che il 4 aprile 2014 scrisse che la professoressa Capua era stata iscritta nel registro degli indagati, addirittura!, per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, abuso di ufficio e traffico illecito di virus.
L’indagine coinvolgeva in tutto 38 persone, tra cui il direttore generale dell‘Istituto Zooprofilattico, Igino Andrighetto, il direttore sanitario Stefano Marangon, alti funzionari del Ministero della Salute tra cui Romano Marabelli, Gaetana Ferri ed Ugo Santucci, oltre al marito della Capua.
Il settimanale l’Espresso, a firma di uno dei tanti giornalisti diventati icone antimafia, Lirio Abbate, riportava la notizia di una presunta cessione illecita di stipiti virali ad aziende farmaceutiche per la produzione di vaccini veterinari e sfruttamento illecito dei diritti del brevetto Diva con la costituzione di un cartello di industrie farmaceutiche veterinarie per il controllo di epidemie H7 nel pollame negli anni 1999-2006.
Si trattava di una bufala colossale, come tante oggi circolanti su internet, cavalcata anche dagli ignorantoni del Movimento di Grillo (un vero scienziato!) e dai pasdaran del Fatto Quotidiano (altri premi Nobel in pectore).
La professoressa Capua, in una lettera del 6 aprile 2014 al Corriere del Veneto, dichiarò: “Le accuse false e sorprendenti che mi sono state mosse dal settimanale l’Espresso danneggiano la mia immagine e reputazione. Sono certa che sarò scagionata”.
Nel luglio del 2016 la virologa è stata prosciolta da tutti i capi di accusa, perché “il fatto non sussiste”. In seguito a questa sconcertante vicenda, ed in considerazione dei danni causati alla propria vita personale, ha rassegnato le dimissioni dalla Camera dei Deputati per trasferirsi in Florida e tornare ad occuparsi di ricerca scientifica.
Il 28 settembre 2016 la Camera dei Deputati, che in genere per prassi respinge le dimissioni di un suo componente alla prima votazione, ha inopinatamente accolto con voto segreto (con 238 si e 179 no) le dimissioni della professoressa Capua, sostituita da tal Domenico Menorello; Ilaria Capua, dopo le dimissioni da deputata, ha abbandonato quindi definitivamente la vita politica ed é tornata a svolgere la professione di scienziata.